Parossismo

Divagazioni corsare, Gallery18 Gennaio 2020 • 4~7 min read • 0

Parossismo
(Parte prima: dal macellaio)

Entro dal macellaio, meno male, poca gente che aspetta.
Davanti a me c’e’ un signore alto, appesantito, quanto me ma di costituzione robusta, a occhio e croce 120kg di papa’ esausto che torna dal lavoro. Tocca a lui ad essere servito. Con buoni propositi, elenca la lista del fabbisogno di carne al macellaio. Esclusivamente carne di maiale, salsicce, braciole, coppa. Detta le quantità quasi a caso e per eccesso. Il macellaio, obbediente e apparentemente privo di qualsiasi punto di vista, carica la bilancia con il pressappochismo di chi sa che sicuramente le più sottili esigenze non vengono da quell’uomo.

Sto attento a ciò che sfila, e’ la fiera del grasso, a metro, al kilo, a metro cubo. Vedo in anticipo quell’unto friggere sulla griglia, cadere sulle braci e alzare la fiamma, zaffare fumo. Alla cassa affonda una mano in un pantalone che scopro essere una tuta da lavoro che spunta sotto il giaccone, ne estrae un fagotto di Euro stropicciati e paga. Fa tempo a dire amichevolmente “non battere lo scontrino” ma la cassiera e’ più veloce a concludere e non fa nemmeno cenno di aver capito. Ributta il resto nella tascona gigante e dato che si trova in quei posti si da’ una fugace ravanata ai gioielli. Esce, la busta di plastica, enorme e con i manici tesi quasi a spezzarsi, pare fare da contrappeso al passo largo e deciso di chi e’ in ritardo, “Chissà che ciurma che lo aspetta” penso. 
L’odore di limatura di ferro e olio meccanico si estingue rapidamente, tocca a me.

Il commesso macellaio e’ un ragazzo di 30 anni o poco piu’. Veste una divisa e un copricapo a norme. Voltando le spalle al banco in un angolo affila un coltello con fare discreto, pare sembrare in una fugace pausa prima di servire il prossimo cliente. Poi improvvisamente si gira e con un sorriso cortese che fino ad ora pareva tenere in tasca si rivolge a me con un “Eccomi, mi dica pure…”

Io ho solo un’idea. Una costata di manzo, leggermente marezzata e frollata davvero. Ma dal macellaio e’ un po’ come dal pescivendolo, mai andare con le idee troppo chiare, quello che vale la pena lo trovi la’. 
Il macellaio mi conosce un po’, io ostento intelletto, parlo italiano e lui si trasforma definitivamente da Mr Hyde a Dr Jekill.
Il macellaio mi apre il suo dry ager illuminato a bigiotteria, mi elenca le 4 pezzature come fossero gioielli. Ci penso, il viola va di moda in questo tipo di carne ma io non mi sono ancora sentito a mio agio con quel colore e decido per una Rubia Gallega di un rosso scarlatto leggermente rigata di bianco. “Ottima scelta” dice il macellaio soddisfatto, estrae il pezzo e comincia a parlarmi della bestia. Nel frattempo sgrassa cesellando con la punta del coltello la futura fetta e prende la mira per il taglio. Scambio qualche opinione sullo spessore e tra un grazie e un prego di troppo il macellaio affonda la lama. 
Al confronto della scena precedente sembriamo due checche fuori luogo, due radical chic della ciccia che giocano a fare gli uomini sprezzanti del sangue.
Il macellaio mi racconta della bestia come fosse stata una sua parente, una di quelle sempre in dieta regolare e particolarmente attenta a ciò che fa bene e a ciò che fa male. Una santa, una che ad un certo punto si e’ voltata indietro per vedere il suo trascorso di vita esemplare decidendo che tutto questo non poteva andare sprecato. Quindi ha ritenuto opportuno immolarsi per noi, offrendo al genere umano il suo corpo modello suddiviso in porzioni.

In tre minuti trasformiamo quel mondo di macello, tranci di carne, interiora di pollo, sangue e lame di coltello in una boutique di orchidee, riempiamo l’aria di opinioni e di precisazioni, un simposio del barbecue non visto da grill master ma piuttosto da filantropi aristocratici. La Rubia Gallega sarebbe stata perfino lieta di essere stata immolata per aver dato sfogo a delucidazioni ed elucubrazioni intellettuali di quel tipo. 

Ammiriamo la fetta stesa nel suo incarto come fosse una reliquia di un santo. Il macellaio mi fa le ultime raccomandazioni sulla cottura, avvolge sulla futura sindone la costata e la porge alla cassiera con due mani, come fosse qualcosa di pregiato che si tramanda ai posteri.

Chiudo la mia visita con l’ultimo sketch da finocchio incallito, pago con la carta di credito. Questo dalle mie parti e’ una cosa insopportabile, grave mancanza di rispetto per il lavoro degli altri e gesto estremamente snob che, oltre ad essere antipatico, esprime oltraggio verso le proprie profonde radici di lavoratore veneto.

La colonizzazione di ambienti insospettabili, come le macellerie, da parte di noi eclettici pali in culo in queste periferie venete e’ ancora agli inizi. Ma il veneto e’ una donna che si concede lentamente, molto lentamente.

Resettati senza pietà i consigli del macellaio procedo con il mio piano. Il Reverse Searing. Arrivato a casa, porto il forno a 50 gradi e inserisco quel kilo scarso di carne con un termometro infilzato al cuore come una spada. 
Chiedo appoggio alla tecnologia, “Alexa, imposta un timer a 2 ore” e vado a fare i cazzi miei.

Fine prima parte.

Hanno riaperto le scuole

Divagazioni corsare, Gallery19 Settembre 2019 • 2~4 min read • 0

Avete presente il rumore che c’e’ allo zoo quando danno da mangiare alle scimmie?
Tanti anni fa, durante una trasferta in Giappone, il lavoro mi porto’ ad Hamamatsu, nella prefettura di Shizuoka. A quei tempi c’era uno Zoo da quelle parti, sono passati anni e non so se c’e’ ancora. Vabbe’ non occorre fare il giro del mondo per vedere certe cose ma onestamente lo Zoo e’ un posto che non mi ha mai attratto, ci sarò andato una volta o due nella vita. Allo Zoo di Hamamatsu non ci sono stato ma ci ho vissuto vicino qualche settimana per il motivo che l’albergo dove alloggiavo era proprio li’ a poco passi.
Voi non avete idea del baccano che fanno le scimmie al mattino durante il pasto, una rottura di coglioni inenarrabile per chiunque. Amo il silenzio e soffro i giorni nostri in quanto a far rumore ce la caviamo proprio, a quei tempi ero giovane ed ero meno bisbetico di adesso, pero’ al mattino, appena alzato, amavo il silenzio. Mi piaceva “sentire” i miei timpani assopiti che si svegliavano e prendevano atto che dopo una notte silenziosa sarebbe arrivato il giorno con la proprio bolgia. Questo momento doveva consumarsi progressivamente, senza irruenza e traumi eccessivi, il mio umore giornaliero era in gioco, in quel momento uno shock acustico avrebbe potuto compromettere la mia giornata e il mio equilibrio mentale. Per agevolare il processo nei primi minuti del mattino praticavo una specie di auto-protezione muovendomi come un alieno disadattato in un mondo nuovo. Un bradipo che cercava di mettere in seconda.
E invece no, durante tutta quella trasferta ad Hamamatsu quel momento mattutino delicato per il mio udito non poteva assolutamente starci. Ogni mattino, puntualmente alle 7, il fragore di quelle scimmie selvagge sfracellava la quiete, era un Vaia sulle mie ciglia uditive.
Uno sventramento. Entrava dappertutto, dalle finestre chiuse, attraversava le mura per osmosi, era una calamita’ naturale da cui era impossibile difendersi. Le frequenze stridule si irradiavano, refrattarie ad ogni ostacolo raggiungevano i miei timpani dove rimbalzavano come sassi battenti in una ringhiera metallica.
Immaginavo un guardiano fottutamente puntuale entrare nella gabbia e distribuire enormi quantità di banane, le scimmie avvinghiate sui trespoli prendere fiato, gonfiare il petto ed iniziare quell’inutile danza tribale fatta di grida, di salti alla rinfusa e di trambusto primordiale.
Un comizio primitivo che probabilmente nascondeva un gesto sociale ma estremamente belluino dove ognuno esprimeva il proprio io, contemporaneamente e con urla bestiali.

Eh niente… mi e’ venuto in mente stamattina mentre i bambini andavano a scuola.

Mortadella

Divagazioni corsare, Gallery16 Marzo 2019 • 4~7 min read • 0

Mi dia due etti di Mortadella…
Zac zac zac Sono due etti e mezzo, lascio?
Se penso a quante volte deve essere successo penso a vagoni e vagoni di Mortadelle che sono state vendute in più.
Penso a mortadellari super ricchi che hanno realizzato ville, auto di lusso e yacht con i mezzi etti di Mortadella venduti con il trucchetto del “Lascio” a scapito di noi poveri mortadel-dipendenti.
Quante volte mi e’ venuto l’impeto di dire, si’… tolga pure. Almeno solo per soddisfare la curiosità di vedere l’astuto commesso capitolare e vederlo in difficolta’ ad inventarsi un angolo dove mettere quella Mortadella tagliata in eccesso. Ma inevitabilmente “l’uomo cattivo” mi avrebbe risposto calando le fette di mortadella dall’alto direttamente nella propria bocca aperta estraendo un beffardo “non me ne frega un cazzo di questo mezzo etto non venduto, non e’ nemmeno la più piccola estremità del mio iceberg di ricchezza”.

Ma no! la mortadella merita di più di uno squallido racconto gentista. Da bravo buonista vi racconto come e’ la mia vera storia sulla mortadella. Da bambino mia madre mi mandava a fare piccole spese dal “casolìn”, cosi’ si chiamava il negozio di alimentari e il suo gestore dalle mie parti.
Quando arrivavo dal casolìn c’era quasi sempre da aspettare per essere serviti. Io, non piu’ alto della meta’ del banco frigo, sostavo in attesa del mio turno davanti a quel luminoso teatro di salumi e formaggi. Poca roba in rapporto alla quantità’ di scelta attuale dei supermercati ma comunque uno spettacolo notevole per il mio minuscolo punto di vista di bambino anni ’70. Il panorama era vario: l’immancabile formaggio Asiago, il formaggio verde con le sue invasioni barbariche, il Fontina dalla non chiara identità sessuale, il vecchio saggio Grana Padano, il Bastardo del Grappa con le sue malefatte e l’ambigua consistenza dell’ Emmental… tutto chiacchiere e distintivo. Poi in mezzo il grande scatolame conserviero, le alici, lo sgombro e la “renga” (l’arringa), prelibatezze agrodolci delle tre volte all’anno che si compravano. Infine i salumi, il prosciutto cotto, la pancetta, il salame Milano, sembrava di essere in un Luna Park in miniatura e come in tutti i Luna Park ecco la giostra delle giostre, la piu’ famosa, l’immancabile, la signora delle giostre: la ruota panoramica ossia LA MORTADELLA.
Un cerchio perfetto che si stagliava alto rispetto alle altre forme, rosa come una mamma, e dietro quel suo mite faccione c’era il suo enorme culone. Ma quanto poteva essere grande una Mortadella intera? Non l’avevo mai vista intera, mi immaginavo un siluro di qualche metro, un sarcofago enorme e pesantissimo a cui servivano uomini e uomini per il trasporto.
Nel suo spaccato appariva liscia, priva di rughe e soda, con i dadini bianchi sparsi che sembrava li avesse depositati il vento rispettando chissà quale regola, poi, come in ogni viso perfetto appariva un neo, il grano di pepe che dava credibilità a tutta quella perfezione rosata.

Il mio viso specchiato sul vetro del banco occupava una piccola parte del faccione della Mortadella, potevo spostarmi e far coincidere quel grano di pepe sulla punta del mio naso riflesso, poi mi fissavo, mettevo a fuoco i piani e mi vedevo rosa con i dadini bianchi sulle guance. Altro che Peppa Pig…
Poi l’interruzione del viaggio, il casolìn ti svegliava con un “tocca a te” quasi inquisitorio. Io: “El me daga du’ etti de Mortadea” (“mi dia due etti di Mortadella”), Lui: “du’ eti de Bologna?” E io “si’ si’”. Certo perché per il mio casolìn la mortadella si chiamava “bologna”.
Il casolìn, molto pratico, con un colpo d’occhio guardava se l’affettatrice aveva il vano libero poi di scatto chinava sul banco il busto, prendeva la bologna avvolgendola con le mani come prendesse un bambino in fasce, drizzava la schiena di scatto portandosi appresso quel peso come volesse assicurare un futuro alla sua ernia e appoggiava pesantemente la bologna al suo patibolo. Bum!
Il peso della mortadella provocava un sussulto a tutto il banco. Con gesto da prestigiatore il casolìn accendeva quella moderna ghigliottina. La lama cominciava a girare inesorabile, circolare, tagliente e sottile.
Ed ecco che scattava il confronto impari, il casolìn con gesto armonico faceva scorrere il carrello, la lama affondava il proprio filo nella polpa preziosa come la manna, la fetta cadeva, la mortadella si stava immolando per noi, i suoi caduti in battaglia si stendevano sul foglio senza aver nemmeno combattuto.
Ma l’istante stesso rivelava il sua vero significato: ero di fronte al sacrificio. Questo aspetto cambiava totalmente quel gesto impunito e la gioia sostituiva la tristezza. Mi piaceva vederla cadere, soffice, piegarsi e distendersi, aspettavo la prossima fetta scommettendo sulla presenza o meno del grano di pepe.
Nel frattempo la sua essenza quasi spirituale si diffondeva anche nell’aria, si moltiplicava sotto le mie narici come le sue fette davanti ai miei occhi. Si consumava tutto in pochi secondi, la passione, la morte e la resurrezione. La Mortadella diffondeva la sua primavera ovunque e ci perdonava per ciò che le stavamo facendo.
Intanto la lama girava veloce, opaca e unta, cinica e impassibile come la falce della morte non capiva che la sua battaglia apparentemente stravinta era ancora una volta e inesorabilmente persa perché nella memoria dei presenti il ricordo più profondo e indelebile sarebbe stato per lei, la Mortadella.
Povera lama.

Bocce e Bestemmie

Divagazioni corsare, Gallery24 Gennaio 2019 • 3~4 min read • 0

Aver vissuto un’infanzia in una periferia veneta a cinquanta metri da un’osteria è segnante di ricordi di un certo tipo.
Un’osteria frequentata da un 30% di saggi ignoranti di bassa montagna e un 70% di dottorato popolare di alto Polesine. In quello scenario era rilevante l’aspetto enogastronomico (che in un’osteria e’ piuttosto intuibile che di gastronomico ci fosse poco) ma lo era altrettanto la comunicazione tra gli individui. Una comunicazione, per quanto primitiva, e’ un fatto importante. E’ l’essenza, l’anello comune, il protocollo di comunicazione che caratterizza il travaso di informazioni e stati d’animo. Li’ la chiave di accesso era la bestemmia. L’imprecazione comunque forniva l’intenzione, come una sorta di like o dislike di qualcosa che e’ accaduto.

Sostenere che per i veneti la bestemmia sia la punteggiatura, vuol dire minimizzare il fenomeno. La bestemmia veniva detta comunque, spesso solo quella. Dovevi esprimere una reazione positiva? La dicevi con il sorriso, era un disprezzo? La dicevi severamente. Alcuni concetti si basavano interamente in un costrutto sofisticato di bestemmie, a volte erano concetti anche complessi ma venivano ugualmente compresi e commentati… a bestemmie naturalmente.

Veniamo all’aspetto ludico.L’osteria aveva due campi di bocce, a nessuno sarebbe passato per la mente di chiamarlo bocciodromo ma era proprio la forma primitiva di questo. In quell’osteria c’erano due arene, due teatri di performance sociali uniche. Lo scenario vedeva i giocatori di bocce, normalmente divisi in due squadre e gli spettatori. Quest’ultimi non erano per nulla comparse, anzi, erano figure attive nella scena . Non ho mai capito se nel match gli spettatori fungevano da tifoseria, mi sembrava piuttosto che fosse un mondo di giocatori passivi o una squadra a parte di allenatori, tutti conto tutti.

Io di tutto questo ricordo bene gli schiocchi. Gli schiocchi davano il via a momenti effimeri di fragore intenso che animavano le giornate bocciofile, soprattutto quelle calde estive. Lo schiocco era la bocciata secca, praticamente uno scontro tra una boccia di pietra contro un’altra e il quasi contemporaneo rumore sordo del rimbalzo sulla tavola di legno a bordo campo. TA-TOC! E qui partiva un indotto come un atto naturale dovuto. Gli uccelli avevano un sussulto e cambiavano ramo, le lucertole scattavano rapide verso una nuova posa e i cani annoiati drizzavano la groppa con un abbaio breve quasi timoroso. E poi giù il fragore di districate bestemmie dell’arena bocciofila a strascico del TA-TOC! che a seconda della clamorosita’ del punto variava il suo protrarsi e la sua violenza. Poi giù il silenzio ancora, le stradine vuote e povere di traffico erano una sala d’aspetto che attendeva il nuovo clamore, una diga a tempo che da li’ a poco avrebbe ceduto per lasciar passare una cascata di bestemmie e schiamazzi.
Gli schiocchi si protraevano fino a sera e rappresentavano l’ossatura ritmica e il battere e levare della giornata per cani, gatti, lucertole e persone.

La bolgia delle streghe

Divagazioni corsare, Gallery20 Ottobre 2014 • 1~2 min read • 1

Se segui l’autostrada A4 da Verona a Padova non puoi, nei pressi di Vicenza, non accorgerti che esiste uno svincolo per l’autostrada “Valdastico”. L’A31. Fino a qualche mese fa c’era solo il ramo Nord, hanno sviluppato da poco anche il ramo sud. L’autostrada Valdastico, nell’immaginario collettivo locale restera’ sempre quella del ramo Nord, per molti “l’autostrada inutile”. Si narra da sempre fosse stata costruita negli anni ’70 per desiderio di Mariano Rumor che aveva una casa ad Asiago. Certamente la presenza di questa autostrada ne avrebbe facilitato di molto il traffico per Asiago, praticamente finisce proprio sotto il costo di Asiago, esci dal casello, due rotatorie, un ponte e poi sei gia’ sulla strada che si arrampica per arrivare al costo, praticamente dopo mezz’ora dalla sfacchinata comoda -a 140 km orari dell’autostrada- sei gia’ in centro ad Asiago.
Se la storia e’ vera non era mica scemo ‘sto Rumor.
(altro…)

Perpendicolari

Orphans & Singles13 Giugno 2014 • < 1 min read • 0

11062014-P6110074

Antipropulsione

Orphans & Singles22 Aprile 2014 • < 1 min read • 0

07042014-P4070179

[3] Felini&Canini

Orphans & Singles14 Aprile 2014 • < 1 min read • 0

Imperfetto-05

[2] Felini&Canini

Orphans & Singles13 Aprile 2014 • < 1 min read • 0

Imperfetto-14

[1] Felini&Canini

Orphans & Singles12 Aprile 2014 • < 1 min read • 0

Imperfetto-15

Staff: Giancarlo (127)