Mortadella

Mi dia due etti di Mortadella…
Zac zac zac Sono due etti e mezzo, lascio?
Se penso a quante volte deve essere successo penso a vagoni e vagoni di Mortadelle che sono state vendute in più.
Penso a mortadellari super ricchi che hanno realizzato ville, auto di lusso e yacht con i mezzi etti di Mortadella venduti con il trucchetto del “Lascio” a scapito di noi poveri mortadel-dipendenti.
Quante volte mi e’ venuto l’impeto di dire, si’… tolga pure. Almeno solo per soddisfare la curiosità di vedere l’astuto commesso capitolare e vederlo in difficolta’ ad inventarsi un angolo dove mettere quella Mortadella tagliata in eccesso. Ma inevitabilmente “l’uomo cattivo” mi avrebbe risposto calando le fette di mortadella dall’alto direttamente nella propria bocca aperta estraendo un beffardo “non me ne frega un cazzo di questo mezzo etto non venduto, non e’ nemmeno la più piccola estremità del mio iceberg di ricchezza”.

Ma no! la mortadella merita di più di uno squallido racconto gentista. Da bravo buonista vi racconto come e’ la mia vera storia sulla mortadella. Da bambino mia madre mi mandava a fare piccole spese dal “casolìn”, cosi’ si chiamava il negozio di alimentari e il suo gestore dalle mie parti.
Quando arrivavo dal casolìn c’era quasi sempre da aspettare per essere serviti. Io, non piu’ alto della meta’ del banco frigo, sostavo in attesa del mio turno davanti a quel luminoso teatro di salumi e formaggi. Poca roba in rapporto alla quantità’ di scelta attuale dei supermercati ma comunque uno spettacolo notevole per il mio minuscolo punto di vista di bambino anni ’70. Il panorama era vario: l’immancabile formaggio Asiago, il formaggio verde con le sue invasioni barbariche, il Fontina dalla non chiara identità sessuale, il vecchio saggio Grana Padano, il Bastardo del Grappa con le sue malefatte e l’ambigua consistenza dell’ Emmental… tutto chiacchiere e distintivo. Poi in mezzo il grande scatolame conserviero, le alici, lo sgombro e la “renga” (l’arringa), prelibatezze agrodolci delle tre volte all’anno che si compravano. Infine i salumi, il prosciutto cotto, la pancetta, il salame Milano, sembrava di essere in un Luna Park in miniatura e come in tutti i Luna Park ecco la giostra delle giostre, la piu’ famosa, l’immancabile, la signora delle giostre: la ruota panoramica ossia LA MORTADELLA.
Un cerchio perfetto che si stagliava alto rispetto alle altre forme, rosa come una mamma, e dietro quel suo mite faccione c’era il suo enorme culone. Ma quanto poteva essere grande una Mortadella intera? Non l’avevo mai vista intera, mi immaginavo un siluro di qualche metro, un sarcofago enorme e pesantissimo a cui servivano uomini e uomini per il trasporto.
Nel suo spaccato appariva liscia, priva di rughe e soda, con i dadini bianchi sparsi che sembrava li avesse depositati il vento rispettando chissà quale regola, poi, come in ogni viso perfetto appariva un neo, il grano di pepe che dava credibilità a tutta quella perfezione rosata.

Il mio viso specchiato sul vetro del banco occupava una piccola parte del faccione della Mortadella, potevo spostarmi e far coincidere quel grano di pepe sulla punta del mio naso riflesso, poi mi fissavo, mettevo a fuoco i piani e mi vedevo rosa con i dadini bianchi sulle guance. Altro che Peppa Pig…
Poi l’interruzione del viaggio, il casolìn ti svegliava con un “tocca a te” quasi inquisitorio. Io: “El me daga du’ etti de Mortadea” (“mi dia due etti di Mortadella”), Lui: “du’ eti de Bologna?” E io “si’ si’”. Certo perché per il mio casolìn la mortadella si chiamava “bologna”.
Il casolìn, molto pratico, con un colpo d’occhio guardava se l’affettatrice aveva il vano libero poi di scatto chinava sul banco il busto, prendeva la bologna avvolgendola con le mani come prendesse un bambino in fasce, drizzava la schiena di scatto portandosi appresso quel peso come volesse assicurare un futuro alla sua ernia e appoggiava pesantemente la bologna al suo patibolo. Bum!
Il peso della mortadella provocava un sussulto a tutto il banco. Con gesto da prestigiatore il casolìn accendeva quella moderna ghigliottina. La lama cominciava a girare inesorabile, circolare, tagliente e sottile.
Ed ecco che scattava il confronto impari, il casolìn con gesto armonico faceva scorrere il carrello, la lama affondava il proprio filo nella polpa preziosa come la manna, la fetta cadeva, la mortadella si stava immolando per noi, i suoi caduti in battaglia si stendevano sul foglio senza aver nemmeno combattuto.
Ma l’istante stesso rivelava il sua vero significato: ero di fronte al sacrificio. Questo aspetto cambiava totalmente quel gesto impunito e la gioia sostituiva la tristezza. Mi piaceva vederla cadere, soffice, piegarsi e distendersi, aspettavo la prossima fetta scommettendo sulla presenza o meno del grano di pepe.
Nel frattempo la sua essenza quasi spirituale si diffondeva anche nell’aria, si moltiplicava sotto le mie narici come le sue fette davanti ai miei occhi. Si consumava tutto in pochi secondi, la passione, la morte e la resurrezione. La Mortadella diffondeva la sua primavera ovunque e ci perdonava per ciò che le stavamo facendo.
Intanto la lama girava veloce, opaca e unta, cinica e impassibile come la falce della morte non capiva che la sua battaglia apparentemente stravinta era ancora una volta e inesorabilmente persa perché nella memoria dei presenti il ricordo più profondo e indelebile sarebbe stato per lei, la Mortadella.
Povera lama.